di Giovanni Fioravanti
(questo intervento è uno stralcio del capitolo Chiuso/Aperto ripreso dal recentissimo volume dell’autore “La cultura della scuola”, ed. Armando)
Le parole fanno significato e oggi viviamo in una società in cui le parole a volte finiscono per imbarazzare. Forse perché con la diffusione dei social la parola circola più scritta che orale e si sa, perché ce l’hanno insegnato i latini, che scripta manent mentre verba volant.
Pertanto le parole perdono della loro leggerezza e finiscono per pesare come pietre miliari. Così non si può dire una cosa per un’altra, un pensiero espresso quando sta scritto è difficile da equivocare quanto da dimenticare.
L’uso di certi termini è stato bandito dal nostro lessico sociale, specie quelli espressione di pregiudizi non più tollerabili, ma se sono state bandite le vestigia lessicali restano i loro monumenti nella psiche di tanti nostri simili.
È il caso delle parole che hanno a che fare con i diritti e con l’esclusione sociale. Razza, sesso, cultura, religione, disabilità sono ancora parole calde, capaci di suscitare emozioni, di far circolare il sangue, di farlo salire al cervello. Suscitano schieramenti, difese ed attacchi. Uomo del mio tempo sei ancora quello della pietra e della fionda, tornerebbe a scrivere Salvatore Quasimodo.
A proposito di significato delle parole, mi sono trovato a parlare di integrazione e di inclusione come se i due termini fossero equivalenti. Tanto equivalenti poi nel dizionario che ognuno di noi reca con sé non devono esserlo, se la maggioranza dei miei interlocutori dimostrava di optare più per l’integrazione che per l’inclusione, riconoscendo implicitamente che l’inclusione si collocherebbe su un gradino più in alto rispetto all’integrazione.